La protezione delle informazioni sensibili e delle strategie di produzione aziendale è sempre stata una priorità delle imprese. Per tutelare questo diritto il legislatore ha predisposto leggi specifiche, che bilanciano la libertà professionale dei lavoratori e le legittime esigenze di tutela delle aziende.
Tra queste norme, la più conosciuta è forse il cosiddetto ‘obbligo di fedeltà’, regolamentato dall’articolo 2015 del Codice civile. Esso impone ai dirigenti (così come a ogni prestatore di lavoro) di essere fedeli al proprio datore di lavoro mediante due obblighi negativi: l’astensione dal trattare affari in concorrenza, e l’obbligo di non divulgare né utilizzare notizie attinenti all’impresa in modo da recarle danno.
L’obbligo di fedeltà è operativo per tutta la durata del rapporto di lavoro, senza bisogno di alcun accordo. Non tutti, però, sanno che esiste la possibilità di ‘estendere’ la durata di questa fedeltà lavorativa tramite il patto di non concorrenza. Il patto di non concorrenza è un istituto giuridico di grande rilevanza; ma spesso è poco conosciuto anche da chi, come i dirigenti, ne viene coinvolto con maggiore frequenza.
Nell’articolo che seguirà, ci concentreremo sulla disamina del patto di non concorrenza e dei suoi risvolti per i dirigenti, analizzando le sue caratteristiche principali ed esaminando alcune circostanze che possono offrire una visione più chiara su come tale strumento viene applicato nel mondo del lavoro.
Patto di non concorrenza: cosa dice la legge?
Il patto di non concorrenza è regolamentato dall’articolo 2125 del Codice civile, e consiste nella limitazione dello «svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto».
Della sottoscrizione di questo patto di natura volontaria beneficiano sia il datore di lavoro che il prestatore di lavoro: il primo è interessato a evitare che il secondo, al termine del rapporto lavorativo, possa svolgere le stesse attività per un’impresa concorrente; il secondo riceve un corrispettivo economico adeguato alle limitazioni lavorative che ha accettato.
Affinché il patto di non concorrenza sia considerato valido, la legge pone tre condizioni:
- Il patto deve risultare da un atto scritto;
- Il patto deve prevedere un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
- Il patto deve contenere precisi limiti quanto al tempo, al luogo e all’oggetto della limitazione.
Se una delle condizioni non viene rispettata, il patto è da considerarsi nullo.
Costituisce una parziale eccezione il limite temporale dell’accordo, che è fissato ad un massimo di cinque anni per i dirigenti (tre anni negli altri casi): se è stata pattuita una durata maggiore, il patto di non concorrenza non viene annullato, ma la sua durata si riduce fino al massimo consentito.
Adesso approfondiremo ciascuna delle tre condizioni che viene posta per la validità del patto di non concorrenza.
1) La forma scritta del patto di non concorrenza
In ambito lavorativo vige generalmente il principio della libertà di forma (art. 1325 c.c.), ma nel caso del patto di non concorrenza è necessario che venga stipulato un atto scritto.
La forma scritta, oltre che a tutela di una o di entrambe le parti, richiama l’attenzione dei contraenti sull’importanza di quanto si sta per sottoscrivere.
In altre parole, il dirigente (o un altro prestatore di lavoro) deve essere consapevole dell’importanza della decisione che sta per prendere, e della rinuncia alla libertà di scelta nelle sue future occupazioni lavorative.
Non esistono, invece, vincoli temporali per la sottoscrizione di un patto di non concorrenza, che quindi può essere stipulato al momento dell’assunzione, durante tutta la durata del rapporto lavorativo e anche alla cessazione dello stesso.
2) Il corrispettivo economico
All’interno del patto di non concorrenza, dunque, il prestatore di lavoro viene pagato per non lavorare. L’affermazione può sembrare paradossale, ma è proprio questa ‘inattività forzata’ il principale vantaggio per il datore di lavoro. Il lavoratore, limitando le sue future possibilità di reinserimento nelle posizioni per cui ha maturato più esperienza, potrebbe ricevere invece un danno economico dalla sottoscrizione di un patto di non concorrenza: ad esempio, uno stipendio più basso del precedente, oppure un prolungato periodo di inattività lavorativa.
Per compensare questi possibili svantaggi futuri, il lavoratore deve essere compensato con un corrispettivo economico che viene corrisposto dal datore di lavoro. Quanto alle modalità di erogazione, non vengono imposti vincoli specifici: il corrispettivo può essere elargito in un’unica soluzione oppure a rate periodiche, e può essere versato sia durante la durata del rapporto lavorativo che al termine dello stesso (in quest’ultimo caso, la somma non è considerata parte della retribuzione imponibile).
Più problematico risulta, invece, il calcolo di un corrispettivo congruo. La somma di tale corrispettivo, di cui la legge non fornisce alcun calcolo preciso, deve essere equa e proporzionata ai divieti. La somma corrisposta non può, dunque, essere meramente simbolica o palesemente sproporzionata. In ogni caso, è chiaro che la mancanza di una formula univoca renda piuttosto discrezionale il calcolo di questo corrispettivo.
In sede di valutazione, sono risultati di grande importanza per determinare la congruità o l’incongruità del corrispettivo sia l’estensione (territoriale e settoriale) del divieto, sia la specifica professione del dirigente.
3) I limiti di tempo, di luogo e di oggetto
Per quanto riguarda il limite temporale del patto di non concorrenza, si è già detto che il massimo è pari a cinque anni per un dirigente, e a tre anni per ogni altro prestatore di lavoro.
Sulle attività oggetto del divieto, invece, bisogna specificare che possono essere vietate non soltanto le specifiche mansioni svolte dal lavoratore nel corso del proprio rapporto lavorativo, ma tutte quelle attività che possano entrare in competizione con l’impresa dell’ex-datore di lavoro. In ogni caso, l’ampiezza delle attività oggetto di divieto non può mai essere tale da impedire de facto al lavoratore qualunque attività lavorativa futura.
L’ampiezza del territorio in cui il patto di non concorrenza è valido può variare da scale molto piccole (es. la provincia, la regione) fino alle più grandi (divieti continentali o globali). Non esistono limiti precisi in merito, ma bisogna ricordare che anche l’ampiezza del divieto va considerata assieme all’estensione di quest’ultimo: se il territorio in cui vige il patto di non concorrenza è molto esteso, le attività oggetto del patto dovrebbero essere più circoscritte.
Le variabili di tempo, luogo e oggetto del patto di non concorrenza incidono in maniera significativa sulla valutazione di un corrispettivo congruo: all’aumentare dei vincoli deve corrispondere un aumento adeguato del corrispettivo.
Violazione e nullità del patto di non concorrenza
Quando i dirigenti violano il patto di non concorrenza, l’azienda può pretendere i corrispettivi già versati, e chiedere anche il risarcimento dei danni provocati dalla violazione. Per scoraggiare questo tipo di comportamento, ai patti di non concorrenza sono generalmente accluse severe penali in caso di violazioni.
Se invece, a seguito di una controversia, il patto viene dichiarato nullo, il lavoratore non è più tenuto ad alcun obbligo nei confronti del proprio ex-datore di lavoro, il quale però avrà diritto alla restituzione della parte di corrispettivo già versata.
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